Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale valore di civiltà giuridica, anche al di là della materia penale. Il caso delle retribuzioni di anzianità dei dipendenti pubblici

La Corte costituzionale (sentenza n. 4 del 2024, redattore Marco D’Alberti) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, che era intervenuto, in via retroattiva, per escludere l’operatività di maggiorazioni alla retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione al triennio 1991-1993, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.
La sentenza ha innanzitutto chiarito che il controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene “ancor più stringente” qualora l’intervento legislativo “incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica”, essendo precluso al legislatore “di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio”.

Al fine di verificare se l’intervento legislativo retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l’esito di giudizi pendenti, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere – in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU – uno scrutinio che assicuri una “particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del potere legislativo”, tenendo conto delle concrete tempistiche e modalità dell’intervento del legislatore.

Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che “solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso” e che “i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile”. Nel caso in esame non sussistevano imperative ragioni di interesse generale a giustificazione della legge. Di qui la sua illegittimità costituzionale per violazione – tra l’altro – dei principi della certezza del diritto e dell’equo processo, di cui agli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

La sentenza ribadisce e rafforza la costruzione di una “solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU” e fra la Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo, nell’ottica di un rapporto di “integrazione reciproca”.

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